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lunedì 3 settembre 2012

L'Untro (o Luntro) e le sue parti (cliccare sul disegno per ingrandirlo) - Rota ‘i puppa – Maschitta – Cidduzzu o catinozzu – Puppa – Taula piscicani – Pitagna – Materia – Nnottula – Scammu ‘e voca du rimu puppa - Suprasola - Brazzolu - Bancu - Scazza - Faleri - Caccagnolu - Rutedda - Puntidda-pedi da voca spadda - Ntinopulu du rimu stremu - Prua - Rota ‘i prua - Pitagna da voca paledda - Ntinopulu du rimu paledda - Siritta - Tratteni ntinopulu - Taulatu La tradizionale caccia al pesce spada (Xiphias gladius) con l’arpione, praticata da tempo immemorabile lungo le due sponde, siciliana e calabrese, dello Stretto di Messina ha registrato la presenza, almeno fino alla prima metà del XX secolo, di un’imbarcazione di singolare interesse riguardo a configurazione materica e caratteristiche costruttive. Il luntro, (in siciliano luntru), così chiamato per probabile derivazione dal latino linter (barca da pesca a fondo piatto già utilizzata dai Romani), era un’imbarcazione lunga 24 palmi (cm. 624), larga cm. 165, con lo scafo alto circa cm. 80, dalla forma snella e slanciata (alla stregua del gladio, la lamina cornea trasparente che si trova all’interno del dorso del calamaro) e il fondo tondeggiante in modo da consentire un ridotto pescaggio. Tale configurazione, unitamente alla leggerezza del legname impiegato nella costruzione e all’esiguo spessore del fasciame, consentiva all’imbarcazione di raggiungere un’elevata velocità, anche per la particolarità del sistema propulsivo consistente nei quattro lunghissimi remi, ciascuno dei quali di dimensioni diverse; i più lunghi di essi, u stremu lungo mt. 5,72 e ’a paledda lungo mt. 5,46, poggiavano su due eleganti supporti arcuati (antinòpuli o anchinòpuli) sporgenti dalle murate di prua al fine di proiettare all’esterno della barca il loro fulcro e consentire ai due vogatori remate più vigorose, mentre i tre vogatori addetti ai due remi centrali, u menzu e u remu i puppalunghi mt. 4,68 (il vogatore posto in mezzo si alternava nell’aiuto ai due compagni), volgevano le spalle alla direzione di marcia del luntru, che avanzava, al contrario di quanto avvenga di solito, con la poppa. Al centro del natante, tradizionalmente dipinto di nero nella parte esterna e rosso e verde all’interno dello scafo, era collocato un albero detto fareri, alto circa mt. 3,50, alla cui sommità prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi su apposite tacche rotonde (ruteddi) presenti a vari livelli, un avvistatore (u farirotu) il cui compito era quello di avvistare, seguendo le indicazioni che gli provenivano dall’avvistatore posto sulla più alta antenna della feluca (u ’ntinneri), e poi seguire il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni (va jusu, va susu, va ’riterrà, va fora, tuttu paru cammòra, firìila tunnu etc.) rivolte ai rematori la direzione da imprimere al luntru, al fine di rendere possibile il lavoro del lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sull’estremità anteriore della poppa con il compito di scagliare, una volta che il pesce fosse venuto a tiro, una delle due lance con asta di legno e punta di ferro (traffinera o ferru) che egli aveva a disposizione, opportunamente poggiate sui loro supporti verticali (maschitti). Al momento della cattura del pesce era costumanza ringraziare Sammàrcu binidittu. La pesca del pescespada aveva luogo da aprile a giugno lungo la costa calabra e nei mesi di luglio e agosto lungo il litorale messinese. Accordi tradizionalmente codificati assegnavano ai vari equipaggi le postazioni (i posti), tratti di mare entro i quali potevano operare le grosse imbarcazioni (le cosiddette feluche, filùi) lunghe mt.11,44, larghe mt.4 e alte mt.1,50, munite di un’antenna di vedetta, costruita in legno di abete e alta 22 mt., il cui compito era quello di avvistare il pesce per poi lasciare il posto al più agile luntru che si incaricava della "caccia" vera e propria. Da una "Monografia sulla pesca del pesce spada nel canale di Messina" redatta in occasione dell’ Esposizione Mondiale della Pesca tenutasi a Berlino nel 1880 e riedita nel 1906 a cura della Camera di Commercio di Messina e su iniziativa dello studioso Rocco Sisci, si apprende che in Sicilia, nelle stazioni (posti) con due feluche e quattro battelli (luntri) la divisione del pescato avveniva nella misura di venti parti per ogni feluca e 2 battelli, secondo le seguenti percentuali: 2 parti per l’armatore della feluca, 1 per la barca del lanciatore, 1 per il lanciatore, 1 per la vedetta (o foriere del luntro), 3 per le due vedette che si danno il cambio sulla feluca, 6 per i cinque rematori del luntru, 4 per i quattro rematori del secondo battello, 1 per il fabbro (il ferrajo che fornisce i ferri), 1 per la Chiesa. A partire dalla seconda metà del XX secolo si assistette alla progressiva dismissione di tali tradizionali imbarcazioni; così il glorioso luntru venne dapprima trasformandosi in un’imbarcazione a quattro vogatori tutti rivolti verso il senso di marcia per poi cadere definitivamente in disuso, mentre la feluca, in origine imbarcazione d’avvistamento (il cui compito era quindi quello di stazionare, ormeggiata lungo la riva ovvero verso l’esterno, in una determinata posta) lunga dai 12 ai 18 metri, larga 4-5 e alta 1,5-2 metri, munita di albero alto circa 20 metri, venne trasformandosi nelle moderne "feluche a motore", dette anche passerelle per la lunghissima passerella (35-40 mt.) che fuoriesce dalla prua, grandi imbarcazioni a motore lunghe più di 20 metri e munite di altissimi tralicci (circa 30-35 mt.) a mò di antenne di avvistamento, o venne addirittura sostituita da sistemi di pesca basati sull’utilizzo di reti e palangresi indubbiamente molto più efficaci e redditizi ma incomparabilmente più poveri e del tutto privi della dimensione agonistica e in un certo senso di sfida paritetica che ha da sempre contrassegnato il rapporto tra uomo cacciatore e animale cacciato presso le culture tradizionali. Non a caso per il tipo di pesca effettuata con l’arpione come quello qui esaminato gli studiosi utilizzano assai spesso la denominazione di "caccia". Da tale caratteristica deriva alla pesca al pesce spada una serie di caratteristiche di rilevante valenza antropologica, riscontrabili pressoché costantemente in tutte le comunità alieutiche del Mediterraneo: pari condizioni di partenza tra cacciatore e animale cacciato, andamento rituale delle operazioni di caccia, intimo legame (di tipo, si direbbe, totemico) con il pesce, fonte di sostentamento alimentare per la comunità e al contempo - se preda abbondante - indicatore di status, in definitiva animale mitico, mitizzato ovvero sottoposto a pratiche di conferimento di senso, a interventi di plasmazione e valorizzazione simbolica, etc. Il luntru restaurato risale agli inizi degli anni ’40; esso proviene da un cantiere di Ganzirri, ove alla sua costruzione attese un mastro d’ascia di cui ci è pervenuto il solo nome, Giosafatto. Entrato in progressiva dismissione nel corso degli anni ’70 e rimasto a lungo in stato di abbandono sul litorale della Riviera Nord, esso venne acquistato, per meritoria iniziativa del giornalista Nuccio Cinquegrani, dal Comune di Messina alla fine di quel decennio, nella prospettiva della successiva creazione di un Museo delle tradizioni marinare locali, una sorta di Araba Fenice che ogni tanto ritorna nei discorsi e nei progetti dei politici messinesi ma che forse è destinato a dimorare solo nei sogni dei vecchi pescatori e di qualche bizzarro raccoglitore di cianfrusaglie del tempo. Dopo essere stato sottoposto ad un sostanziale intervento di restauro ad opera del mastro d’ascia Emilio Vanto in un cantiere di Scilla (con il rifacimento di ricchieddi eantinopuli), esso venne dapprima esposto in un sottoscala dell’androne principale del Municipio e quindi, a partire dal 1981, offerto per tre anni alla pubblica fruizione presso la Fiera Campionaria di Messina. Fu quindi collocato, incongruamente, nell’area dell’ex Gasometro, ove andò incontro a un progressivo quanto umiliante degrado; rimosso in seguito da tale sede, il luntru venne dapprima custodito in un fatiscente deposito comunale a Gazzi e poi, a seguito di una campagna di stampa e di un’indagine giudiziaria, affidato alla Sezione messinese della Lega Navale. Collocato successivamente per qualche tempo all’interno dell’Istituto Nautico "Caio Duilio" su iniziativa del Preside Cardia, esso venne definitivamente, nella seconda metà degli anni ’80, dato in deposito alla Lega Navale, che ne curò il varo nel mese di giugno 1988, dopo un ulteriore intervento (di rifacimento più che restaurativo, in quanto comportante la sostituzione dell’originarioprimu con una pesante chiglia). Il luntru venne poi offerto alla fruizione di visitatori e scolaresche e sporadicamente utilizzato a fini spettacolari o promozionali; nel 1989 venne infatti "calato" nel lago di Ganzirri per una ricostruzione spettacolare della tradizionale caccia al pesce spada promossa dall’Associazione "Ittios Messana" e patrocinata dall’Amministrazione Provinciale. In quell’occasione vennero invitati alcuni anziani pescatori messinesi, nel frattempo emigrati. Dopo tale ultima performance pubblica, il glorioso luntru venne custodito per molti anni nei depositi della Lega Navale, rimasti per lungo tempo chiusi. Solo alcuni anni or sono la loro riapertura rivelò l’esistenza del prezioso cimelio. Per tutto quanto sopra esposto nel 2002 il natante è stato riconosciuto come bene rivestente un particolare interesse etno-antropologico, costituendo esso l’ultima testimonianza materica di attività lavorative tradizionali, quali la cantieristica navale dei mastri d’ascia e la pratica piscatoria, che per molti secoli hanno fatto parte integrante dell’economia e della cultura del comprensorio messinese. In forza di tale interesse il luntru è stato sottoposto a tutela ai sensi della normativa vigente (Testo Unico sui Beni Culturali, ora Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio). L’intervento restaurativo condotto, oltre ad aver sortito la restituzione dell’imbarcazione alla sua originaria integrità formale attraverso l’eliminazione di tutte le superfetazioni che nei decenni di dismissione ne avevano pesantemente opacizzato l’identità (una per tutte, l’inopportuna e dannosa vetroresina), ha registrato l’insorgere di un circuito virtuoso che ha visto collaborare a vario titolo, ciascuno secondo le proprie finalità e competenze istituzionali, ben cinque organismi quali il Comune di Messina, la Lega Navale, il Lions Club Peloro, il Parco Letterario Horcynus Orca e la Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Messina, oltre a determinare per la prima volta l’attività congiunta, "fianco a fianco", di due valenti mastri d’ascia, Mastro Giacomo Costa e Mastro Mimmo Staiti, rispettivamente rappresentanti la vecchia e la nuova guardia della cantieristica tradizionale messinese. Anche questo, ci pare, va ascritto a merito dell’iniziativa che qui si presenta: di avere cioè sortito come esito, cosa affatto rara e forse unica per la Messina di oggi, una comunanza di linguaggi e di sentimenti intorno a un fine comune percepito non come interesse di gruppo o di clan (il particulare di cui parlava Guicciardini) che usa tanto perseguire in questa città, sibbene un progetto speso per rinsaldare una memoria che sempre più risulta l’unico strumento atto a garantire alla città stessa navigazioni prive di rischi nei mari tormentati della modernità. Se l’iniziativa, come crediamo, è pienamente riuscita, piuttosto che applausi di maniera essa richiede forse volontà di menti e di cuori per altre "piccole" analoghe iniziative in grado di consegnare nuova qualità di vita a una comunità ormai priva di utopia. Il piacere di riscoprire il Luntro E' sempre un piacere, un privilegio e un onore, per un Associazione come la nostra, il poter essere utili a distanza a nostri conterranei pieni di nostalgia che riscoprono nelle pagine del nostro sito le immagini e i ricordi della propria terra natale, purtroppo abbandonata. Allo stesso modo, siamo lieti di poter giovare alla divulgazione e alla ricerca delle tradizioni e della storia di questo tratto di mare e di terra. Per questo motivo possiamo riportare due comunicazioni che ci sono arrivate, tutte e due relative al "Luntro": "Sapere che ne esiste ancora uno, anche se ampiamente rimaneggiato, e vederne le foto sul vostro blog mi ha commosso sino alle lacrime. Per un ganzirroto come me che vi manca dal lontano 1961 è stato come tuffarmi dalla cima della "fuluca" o quasi, come eravamo usi fare da ragazzini, sotto gli improperi dei pescatori, consci del pericolo che correvamo. Un'emozione "violenta" e insieme una sensazione di dolce e prepotente malinconia, un senso di oppressione al petto quasi di angoscia percorsa dai flashback della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia adolescenza. GRAZIE e un grazie al caso che mi ha condotto sul vostro blog". "Salve, Ho trovato il sito dell'Associazione Culturale Cariddi mentre cercavo informazioni sulle caratteristiche dell'imbarcazione chiamata Luntro ove ho trovato un ottimo articolo, credo di sua penna, sia informativo che ben illustrato. Io sto facendo delle ricerche su questo tipo di imbarcazione descritta da Omero nell'Odissea. Vorrei, quindi, farle una domanda: Lei, si e` occupato di quest'aspetto nei suoi studi e ricerche? Se dovesse avere informazioni a questo riguardo sarei molto interessato di conoscerle. La ringrazio e la saluto cordialmente, LETTERA FIRMATA" Rispondiamo ad entrambi: l'articolo citato è tratto da una rivista divulgativa di Messina: "Città e Territorio" del 2005. La direzione e la redazione della rivista hanno sede all'ufficio stampa del Comune di Messina. E-mail: cit_ter@solnet.it. Non sappiamo tuttavia quanto possa essere attendibile e sicuro questo indirizzo, che riportiamo semplicemente dal sito ufficiale. Il Luntro nella foto è quello che si trova oggi al Parco Horcynus Orca di Torre Faro, visitabile da tutti a memoria del tempo passato. Per i nostri conterranei che sono emigrati ma contano di poter tornare per una qualche vacanza a Capo Peloro, si consiglia una visita completa al Parco e una delle gite organizzate di una intera giornata a bordo delle attuali feluche. Questa attività di "Pesca Turismo", attira ogni estate decine di escursionisti e appassionati che possono passare in barca diverse ore, mentre i pescatori lavorano davvero sulle acque dello Stretto. Per avere maggiori informazioni sul Luntro e la Pesca al Pesce Spada a Capo Peloro molti sono gli esperti che gravitano attorno alla nostra Associazione e hanno "temprato" dal vivo le proprie conoscenze per tutta la vita. Gli splendidi schemi disegnati e la ricostruzione di tutte le componenti di Luntro e Palamitara sono di Peppino Rando. Un altro "esperto" di cose locali è Giuseppe Buceti, autore anche di alcuni studi su Torre Faro e sulla numismatica messinese. Mauro Longo, lo scrivente, ha curato tra le altre cose un approfondimento sulla salagione del pescato nell'antichità. Per chi avesse infine voglia di una lunga conversazione su Torre Faro, la pesca e le tradizioni del paese, il consiglio è di venire un pomeriggio alla sede della nostra Associazione, in Via Lanterna 4 a Torre Faro, Messina (090-3223093) e chiedere di Franco Longo. 'A Palamitara Ancora grazie a Peppino Rando possiamo pubblicare per gli appassionati una dettagliata e precisa ricostruzione della Palamitara. Basta clickare sulle immagini per ingrandirle. 1 - Timuni 2 - Ntinna pa vila 3 - Ugghiozza 4 - Fimminedda 5 - Iaci 6 - Rota i puppa 7 - Bucu passascotta 9 - Scammu e voca du rimu paledda 8 - Nnottula 10 - Suprasola 11 - Materia 12 - Nfura 13 - Fuccedda 14 - Puppa 15 - Siritta 16 - Bancu 17 - Vocarimu puppa 18 - Voca nto 5 19 - Anchia 20 - Voca nto 4 21 - Ianciu pu capiteddu 22 - Voca nto 3 23 - Curituri 24 - Voca nto 2 25 - Voca brazzolu 26 - Muccigghia 27 - Scazza illaburu da vila 28 - Bancu du contrabrazzolu 29 - Mussu da vila 30 - Voca du contrabbrazzolu 31 - Ianciu i prua 32 - Migghiareddu 33 - Palamedda 34 - Feru 35 - Caccagnolu 36 - Puntali 37 - Taulatu 38 - Catinozzu "Il Luntro". Tipica imbarcazione da pesca,utilizzata fino alla fine degli anni 50 solo dai pescatori Ganzirroti e Calabresi insieme alla "Feluga"per la cattura del pescespada con l'arpione Il luntro ed io giovedì 2 agosto 2007 di Francesco Pagano Ci sono molti studiosi di scienze e di antropologia, ci sono tanti appassionati delle nostre antiche e nobili tradizioni marinare in grado di disquisire sul luntro con competenza, ma non credo che qualcuno quanto me abbia convissuto con il luntro operando con la cinepresa e la macchina fotografica, così da riportarne ricordi molto singolari. Da studente liceale avevo praticato il canottaggio; credevo, quindi, che la scalmiera posizionata all’esterno della murata fosse una peculiarità assoluta delle imbarcazioni di competizione sportiva: una invenzione moderna. Il mio grande stupore, al primo contatto con la pesca del pescespada, a Ganzirri, nel 1948, fu di scoprire che ben prima - chi sa quanti secoli prima - qualcuno aveva inventato questo straordinario accorgimento per dare velocità ad una imbarcazione di lavoro: il luntro. Restai per un bel po’ a bocca aperta ragionando sulla ingegnosità dell’uomo e sulla raffinatezza di quel particolare "tecnologico" che, come ebbi poi ad accertare "sul campo" (cioè nei momenti del furore dell’inseguimento), non solo rendeva il luntro la barca da pesca più veloce che avessi mai conosciuta, ma, con il meccanismo di leve sapientemente creato con il fuori scalmo, la rendeva agilissima nel pedinare i guizzi repentini dello spada e stabilissima al momento del silenzio solenne, quando il "lanzaturi", giunto a tiro, innalzava lentissimamente la punta della fiocina con cui imponeva silenzio ed immobilità assoluti. Era un gesto da grande sacerdote del mare che faceva immergere di taglio i remi ai quattro accaldatissimi rematori con cui rigidamente riuscivano a frenare velocità, arrestare totalmente il luntro e lo facevano resistere alla irruenza della corrente. Tutto si impietriva come un gruppo da presepe del Bongiovanni: solo lo sciacquettio del mare sulla chiglia viveva ancora. Questa fu la prima rivelazione di quel gioiello di marineria chiamato luntro: e fu un amore a prima vista che, insieme al più riverente rispetto, non si è mai estinto. Poi venne la scoperta dell’uso di navigare: con la poppa davanti. Mi spiegarono che, essendo lì più largo lo spazio rispetto alla prua, ciò consentiva al "lanzaturi", che doveva lanciare l’arma letale stando in piedi sulla piccola piattaforma, maggiore stabilità e, quindi, maggiore precisione del lancio. Chiesi, allora: perché non chiamarla prua? Un sorriso di delicato compatimento fu la risposta: ad oggi non ho ancora capito. E ancora: il falere. A prima vista mi sembrò ridicolo e inutile quel corto e strambo palo con un dischetto poggiapiedi a mezzo metro dalla punta e leggermente inclinato in avanti. Cosa può vedere un uomo appollaiato a così minima altezza? mi domandavo. Quando, poi, mi ritrovai lassù - due metri più degli altri - squassato dalle oscillazioni dei furiosi e ritmici colpi di remi, dalle improvvise ed impreviste virate e riprese, dalle impetuose frenate, quando - non avevo altro che due braccia e due mani - non riuscivo contemporaneamente ad agguantarmi alla punta del falere e ad imbracciare la cinepresa, come fossi in un rodeo marino; quando, però, riuscivo a lanciare uno sguardo oltre al prua (pardon: la poppa) di traverso alla superficie del mare scorgendo un luccichio argenteo stretto e lungo ad uno, due metri più in basso, solo a quel momento capii che anche il tozzo falere aveva una sua funzione: eccome! L’ultima scoperta fu il pagliolo, cioè il pavimento del luntro, ed i piedi - nudi naturalmente - dei quattro rematori. E quella è rimasta segreta fra me ed il luntro di Padron Simone Arena. Disteso, coricato, inginocchiato, seduto alla nostrana o alla turca, contorto come una anguilla, fra quei piedi che pestavano fragorosamente sul legno - e talvolta sul mio corpo -, per ore e giorni con la mia fedelissima Arriflex 35 mm, ne feci il mio set per riprendere i dettagli di quella grandiosa sfida fra l’uomo ed il sinuoso spada. Le mani abbarbicate rabbiosamente al remo, le smorfie e gli urli contratti del viso, i muscoli del torso nudo che si tendevano e contraevano, le spalle inarcate nello spasimo dello sforzo rematorio di quei giovani che si erano votati a quell’arte, furono per me l’essenza vera di quel mondo in cui si confondevano uomini e mare: insieme alle ieratiche movenze di Padron Simone, il più famoso "lanzaturi" dello Stretto, quando, prima dell’attimo finale, individuata la posizione favorevole della preda alzata l’asta ed ottenuto il silenzio e l’arresto, orientava l’arpione a quattro alette ora a destra, lentamente, ora appena a sinistra, quale ordine di rotta per i rematori che con silenti e leggere remigate, come una pantera che ha adocchiato la gazzella, raggiungevano la postazione ideale per lanciare l’arma. E da lì, con una parabola di una decina di metri che sembrava non finire mai, l’arpione dalle quattro solide alette quasi sempre infilzava lo spada. Il tocco di carne attorno a questo foro spettava al "lanzaturi". (La Pesca del pescespada nello Stretto di Messina fino agli anni Sessanta del ‘Novecento. Dal romanzo “Messina 1908″, di Giuseppe Loteta, Pungitopo editore). La feluca La flottiglia degli Arena,. così si chiamava la famiglia di Angela, era una delle più grandi e attrezzate dell’intera riviera messinese. E parlare di flottiglia non era impropio, perchè si trattava di due grandi feluche e di due luntri. Le prime issavano al centro il maestoso albero di avvistamento, ‘a ntinna, alta più di venti metri, in cima alla quale si accovacciava la vedetta che aveva il compito di avvistare dall’alto il pescespada e di segnalarlo con grandi urla all’equipaggio del luntro, piccolo e veloce, che avrebbe seguito la preda fino a colpirla. Una prendeva posizione vicino alla costa e l’altra al largo, in modo da individuare il pesce in un tratto di mare molto ampio. Le due feluche servivano anche da contenitori degli animali arpionati che i pescatori issavano a bordo e stivavano negli ampi spazi ricavati sottocoperta. L’equipaggio di ogni luntro era composto da sei persone. Quattro erano addetti ai lunghi remi che imprimevano alla barca la velocità necessaria all’impresa. Un quinto, il foriere, issato su un piccolo albero di direzione, seguiva le indicazioni dell’antenniere della feluca e le trasmetteva, aggiustandole a distanza ravvicinata, ai rematori. E infine il lanciatore, che aveva il compito più difficile di tutto l’equipaggio: colpire il pescespada con il lungo arpione, il ferro, lanciato con tiro diretto o parabolico da una distanza che poteva raggiungere dieci o dodici metri. Il lancio avveniva in piedi, in equilibrio precario, ma raramente il bersaglio era mancato. Il luntro era dipinto all’esterno di nero, per risultare meno visibile al pesce. e all’interno di verde. Il padre di Angela, don Vincenzo, guidava l’intera battuta dalla tolda della feluca d’alto mare. Totino, addestrato fin da bambino, ne era l’antenniere. E gli altri due fratelli, Paolo e Pippo, erano i lanciatori dei due luntri… Il luntro Gli uomini degli equipaggi raggiunsero rapidamente i loro posti e le imbarcazioni presero il largo contemporaneamente. Non era passato molto tempo che la prima feluca calò l’ancora e uno dei due luntri cominciò a girarle intorno lentamente. La barca di don Vincenzo proseguì verso il mare aperto. E Antonio dimenticò i suoi pensieri. La feluca solcava le onde con leggerezza, danzando su un’acqua limpida e trasparente, quale era raro vedere nei giorni a cavallo tra la primavera e l’estate. Ora, la sensazione di benessere dello studente era totale….Contava solo che lui si trovasse lì. su quel mare di favola, ad assistere a un rito che si tramandava da millenni nello Stretto di Messina. Il silenzio fu rotto all’improvviso da un grido di Totino dall’alto. “Le fere, le fere! Pi fora!”. Antonio guardò per fuori, verso il largo, e vide la carovana di delfini che fendeva il mare a grandi balzi. Per nulla intimoriti dalla presenza dell’uomo, anzi curiosi, i mammiferi virarono ad angolo retto e si diressero verso il peschereccio: Lo circondarono e, regolando la loro velocità su quella del natante, lo scortarono per un tratto di mare, emettendo ad intervalli regolari fischi e suoni striduli. Poi all’improvviso come erano venuti, ricostituirono l’originaria formazione e si allontanarono. I pescatori li guardavano senza muovere un dito. Avevano rispetto per le fere e anche un certo timore, che derivava dagli incomprensibili atteggiamenti di questi animali e dai racconti dei più anziani che, nelle sere d’inverno, intorno al fuoco, giuravano perfino di averli sentiti piangere. Guttuso: La leggenda di Colapesce La caccia vera e propria ebbe inizio a giorno inoltrato. Totino cominciò a urlare come un pazzo: “Sunnu dui, dui! Fora e susu! Fora e susu! Mi si movi, mi si movi u luntru”. Ma non ebbe bisogno di ripetere l’avvertimento. I quattro rematori del luntro scattarono e il barchino partì velocemente nella direzione indicata dall’antenniere. Finchè anche il foriere fu un grado di vederli. Nuotavano appaiati e ancora ignari del pericolo. Nel più assoluto silenzio, Paolo Arena, il lanciatore, salì a poppa e imbracciò il ferro, la lunga asta di legno alla cui estremità era fissato l’arpione vero e proprio, la punta metallica con le alette apribili, che, una volta centrato il bersaglio, si staccava dalla sua base e restava immersa nel corpo della vittima. Lo bilanciò e rimase in attesa, immobile, con gli occhi fissi sul tratto di mare che aveva davanti. Finchè il foriere gli sussurrò dall’alto: “ora, ora”, e lui lo vide. Era un bestione lungo sui tre metri a otto, dieci metri di distanza. Sembrava in apprensione, ora. Si muoveva a scatti e si era girato con la testa nella direzione opposta a quella dove si trovava il luntro. Aveva fiutato il nemico e si preparava a fuggire, ma Paolo non gliene diede il tempo. Lo guardò per un istante e poi, con un grido di trionfo, lanciò alto il ferro che, con una perfetta parabola, andò a conficcarsi nel corpo dell’animale. “Caloma, caloma” gridò don Vincenzo da bordo della feluca, a indicare che ora si doveva dare caloma, cioè distendere la lunghissima sagola collegata con la punta metallica e seguira i movimenti del pesce, finchè questo, sfinito e dissanguato, non si fosse immobilizzato e non fosse possibile issarlo a bordo. Il pescespada tenta di fuggire. Quello fu il primo, una femmina. Seguì il maschio che continuò a girare intorno al punto in cui era stata colpita la sua compagna, finchè il ferro di Paolo non trafisse anche il suo corpo. E, dopo la coppia, altri, arpionati con precisione nell’eccitazione crescente di una caccia che si rivelava anche più copiosa del previsto. Un solo errore: uno scarto improvviso del pesce e il ferro in acqua, tra gli insulti e le grida di scherno degli equipaggi delle due barche. La pesca s’interruppe a mezzogiorno. Era l’ora della colazione. Frugale, come sempre nelle battute al pescespada. Pane e formaggio, pane e pomodori e rigorosamente acqua, conservata nel bummolo di terracotta che la rinfrescava. Il vino, rosso e abbondante, si sarebbe bevuto la sera, a terra, quando la pesca della giornata sarebbe stata ormai un ricordo da illustrare con dovizia di particolari ai commensali… Il ritorno a terra. Quando arrivarono a terra il sole non era ancora tramontato. Le ultime luci furono utilizzate per sbarcare le prede dalle feluche e, sulla spiaggia, cominciare a far le parti per l’equipaggio. I pezzi più gustosi e meno commerciabili, perchè solo gli intenditori più esigenti li richiedevano, erano riservati ai pescatori: la scuzzetta, tratta dalla nuca del pesce, ottima se cucinata alla ghiotta, la surra, ricavata dall’addome, e, soprattutto, le piccole parti commestibili della testa, tagliata prima di vendere l’animale, i deliziosi pititti che arricchivano sughi e intingoli. Antonio assistette alla divisione e, al punto in cui erano arrivati, gli sembrò naturale che don Vincenzo gli mettesse sottobraccio un gran fagotto di roba. “Questi sono per lei”, disse. “E’ stato tutta la giornata con noi sulla barca ed è giusto che guadagni qualcosa. Vada a posarli e poi, se vuole onorarci, venga stasera a casa nostra per la mangiata”. La pesca del Pesce Spada La pesca del Pesce Spada, a Messina, è un’arte antichissima che si tramanda di padre in figlio. Si pratica nelle acque dello Stretto, dai primi di maggio e fino a tutto agosto, da oltre duemila anni con l’uso, ad inizio stagione, del sorteggio delle “poste” che cambiano a rotazione ogni settimana. Per la caccia al Pesce Spada “u lanzaturi“ ( il lanciatore) è determinante per la cattura della preda, ma, ciò, è sempre subordinato alla qualità “du ferru“ (del ferro, o meglio, dell’asta con l’arpione ). L’arpione era forgiato secondo canoni tramandati di padre in figlio e pochissimi erano gli esperti “mastri firrara“: uno di questi era “Mastru Ninu Puglisi”, del Villaggio S. Agata, dove visse ed aveva bottega. Quando forgiava e batteva gli arpioni stava sempre solo, a conferma del segreto che si è portato, recentemente, nella tomba. I capi barca facevano a gara per avere un suo arpione, che non vendeva ma che dava solo in uso, ricevendo in cambio una parte del pesce spada catturato. A fine campagna di pesca, i ferri venivano riconsegnati al fabbro che curava la loro manutenzione sostituendo quelle parti usurate. La morte di “Mastru Ninu” ha lasciato un vuoto incolmabile tra i pescatori che, specialmente i più giovani, lo interpellavano per avere consigli sulla pesca, sulle correnti e sull’uso degli attrezzi. Oggi gli arpioni sono comprati nei negozi specializzati. Anticamente e fino agli anni Cinquanta, la pesca del Pesce Spada si effettuava con due barche: una “Feluca” con un albero centrale alto 20 metri chiamato”‘ntinna“, dove sulla sommità trovava posto un osservatore detto “ ‘ntinneri “, ed una barca lunga sei metri e larga m. 1,65 chiamata “Luntro“, munita di una piccola antenna alta tre metri, con un equipaggio di cinque rematori su quattro remi, un “antennista” e un lanciatore che si posizionava a poppa (così era chiamata, in gergo, la prua ) col compito di infilzare la preda. La barca, costruita in legno molto leggero, sotto la spinta dei vogatori diventava velocissima ma capitava, come anche oggi, che il pesce si inabissasse o si sbagliasse il tiro. L’equipaggio del “Luntro” era scelto accuratamente tra vogatori capaci, che nella maggior parte dei casi erano addestrati sin dalla nascita. Il pagamento dell’equipaggio non era determinato in quota fissa, ma, per antica usanza, era calcolato in proporzione al pescato, in modo da avere stimoli maggiori. Il sistema, basato su una Feluca e due Luntri, era articolato in venti parti cosi suddivise: due parti al padrone della Feluca; una alla barca del lanciatore; una e mezza al lanciatore; una alla vedetta del Luntro; tre alle due vedette della Feluca; sei per i cinque rematori del Luntro; quattro per i quattro rematori della seconda barca; una al proprietario dei ferri e mezza alla Chiesa. Oggi il sistema di pagamento è quasi uguale, ma adeguato al nuovo sistema di pesca che si pratica con feluche munite di passerelle lunghe 20 metri, un traliccio di 30 metri in sostituzione del palo di legno e potentissimi motori, mentre il “Luntro” è stato definitivamente abbandonato. Nel periodo estivo sono collocate nel Lago Grande, dai pescatori di Ganzirri, una “Feluca” ed un “Luntro” a testimonianza del nostro glorioso passato marinaro; barche che poi sono utilizzate per trasportare la statua di San Nicola, il giorno della sua festa, all’interno del Lago Grande, attorniato da lumi posti nelle acque e da tutte le barche dei pescatori del luogo. La pesca del pesce spada nello Stretto di Messina tra mito, storia e mestiere da maggio a ottobre nello Stretto di Messina (Messina) - (di Giusy Chiricosta) Il periodo di pesca del pesce spada va da maggio a ottobre, quando le acque di superficie si riscaldano e i pesci spada si riavvicinano alla costa. E’ infatti in questo periodo che lo troviamo più facilmente fresco nei mercati. E’ assai difficile stabilire esattamente come e quando i pescatori dello Stretto iniziarono a dargli la caccia: di certo è un’arte antichissima. E’ infatti da tempo immemore che lo Stretto di Messina è la via prediletta dal pesce spada perapprodare nelle acque più tiepide del Mar Ionio. La pesca del pesce spada può essere praticata in diversi modi: con la fiocina o arpione (su apposite imbarcazioni dette "feluche"); con i palangari derivanti; con reti a circuizione. Abbocca abbastanza facilmente anche a lenze trainate, per questo è preda ambita anche dai pescatori sportivi. Col metodo della fiocina (o arpione) la cattura del pesce spada avviene scagliandogli contro una lunga lancia alla cui estremità si trova un uncino ricurvo che, una volta penetrato nelle carni non ne esce più. E’ sicuramente un modo molto pittoresco e molto legato alle tradizioni locali. Un tempo per pescarlo, ci si serviva dei luntri, imbarcazioni snelle e veloci a quattro remi dipinta di nero, tanto da sembrare simile ad un pesce. Venivano costruire dai migliori artigiani di Ganzirri e Torre Faro, in legno di gelso o di leccio. Il suo nome pare derivi da Linter, barca a fondo piatto utilizzata dai Romani per la pesca e il trasporto costiero. Al centro c'era un albero alto 3 metri e mezzo (Farere) dove, su apposite sporgenze, si metteva unavvistatore. Sul luntro agivano di solito cinque o sei uomini, tra cui unfiocinatore. Era lui che, una volta avvistata la preda, aveva il compito di fiocinarla. A quel tempo era una battaglia dura che non sempre però, vedeva vincere l’uomo. I luntri, pur se costruiti solidamente, erano pur sempre dei gusci fragili e vulnerabili di fronte alla forza disperata di un animale che lotta per la propria sopravvivenza. Nel corso degli anni l’uomo ha ovviamente studiato e sviluppato strumenti migliori e più sicuri per la pesca del pesce spada. Oggi, invece, i luntri sono stati sostituiti da eleganti e velocissime feluchedotate di un’ alta antenna d’avvistamento e di una lunga passerella per il fiocinatore. Le feluche sono barche a motore di alto mare più pesanti del luntro e meglio attrezzate. L’antenna che si innalza al centro della barca, è alta da 20 a 25 metri e in cima reca una coffa dentro alla quale prende postoun antenniere sempre in attenta osservazione del mare e pronto a dare l’allarme al primo avvistamento del pesce spada. Dalla prua della feluca fuoriesce un trampolino lungo 30-40 metri alla cui estremità si posizionerà il fiocinatore, pronto a seguire le evoluzioni del pesce e, al momento buono, a lanciargli addosso l’asta uncinata munita di una sottile cordicella di nylon che può essere lunga anche diverse centinaia di metri (la caloma). Quando la fiocina, scagliata con violenza al grido di "Viva Santa Marta biniditta!" penetra nelle carni del pesce spada (la cosiddetta strumatura), questi talvolta, quasi per istinto, cerca di rivoltarsi contro il feritore. Ma la maggior parte delle volte subito dopo un istante di sbalordimento e di immobilismo, si inabissa cercando la fuga. Il fiocinatore ha cura di mollare la funicella che lega la fiocina affinché il pesce nel vano e dispendioso tentativo di fuga, possa esaurire la sua forza e la sua vitalità. Ad intervalli il pesce affiora dal’acqua per poi inabissarsi nuovamente lasciando una scia di sangue dietro di sé. Una particolarità: se il pesce è femmina nelle sue vicinanze, (ma pare anche in altri casi) appare il maschio che sembra voler portare aiuto alla sua compagna; ma non sa che fare. Allora si agita e si dimena e diventa pericolosissimo. Ma su dì esso accorrono subito le altre feluche con altri fiocinatori e anche per lui la sorte è segnata; alla fine, quando le forze del pesce spada sono stremate, l’epilogo è compiuto. I pescatori lo issano su una barca da carico con molta cautela; infatti è noto che a volte, nell’agonia, il pesce potrebbe avere ancora un improvviso ritorno di aggressività. Un altro modo utilizzato per la pesca del pesce spada è quello con i"palangari derivanti". Il palangaro può essere paragonato ad un lunghissimo bolentino armato con molti ami. Infatti è composto da un lungo cavo principale , “trave” o “lenza madre”, (può essere lungo anche diversi chilometri), che può essere realizzato con cordino ritorto o trecciato, oppure con monofilo o anche con una piccola fune in acciaio. Alla lenza madre vengono legati gli ami tramite spezzoni di lenze, i cosiddetti "braccioli" che vengono legati al trave ad intervalli regolari, pari a circa 2 volte la loro lunghezza. I palangari si distinguono in fissi e derivanti a seconda se sono ancorati sul fondo o lasciati in balìa delle correnti. I derivanti, quelli usati per la pesca del pesce spada, sono di superficie. Di norma la pesca delpalangaro viene effettuata di notte: si cala verso il tramonto e si salpa all’alba. Durante il giorno si allestiscono le ceste e si innescano gli ami. Terza modalità per effettuare la pesca del pesce spada è con le reti. La pesca con la rete (palamitara), viene effettuata di notte. Questa rete è esclusiva per tonno e pesce spada. E’ molto robusta, lunga 600 - 800 metri,alta 16 metri, con maglie di circa 17 cm di lato. In superficie è sostenuta da un cavo con galleggianti e zavorrata con piombi; i due estremi del cavo sono collegati ognuno ad un grosso galleggiante, ciascuno dei quali regge una campana. Quando il pesce spadaincappa nelle rete e ne rimane ammagliato per cercare di liberarsi si dimena,facendo suonare la campana, avvisando così i pescatori.


L'Untro (o Luntro) e le sue parti
 
(cliccare sul disegno per ingrandirlo)
- Rota ‘i puppa
– Maschitta
– Cidduzzu o catinozzu
– Puppa
– Taula piscicani
– Pitagna
– Materia
– Nnottula
– Scammu ‘e voca du rimu puppa
- Suprasola
- Brazzolu
- Bancu
- Scazza
- Faleri
- Caccagnolu
- Rutedda
- Puntidda-pedi da voca spadda
- Ntinopulu du rimu stremu
- Prua
- Rota ‘i prua
- Pitagna da voca paledda
- Ntinopulu du rimu paledda
- Siritta
- Tratteni ntinopulu
- Taulatu
 La tradizionale caccia al pesce spada (Xiphias gladius) con l’arpione, praticata da tempo immemorabile lungo le due sponde, siciliana e calabrese, dello Stretto di Messina ha registrato la presenza, almeno fino alla prima metà del XX secolo, di un’imbarcazione di singolare interesse riguardo a configurazione materica e caratteristiche costruttive. Il luntro, (in siciliano luntru), così chiamato per probabile derivazione dal latino linter (barca da pesca a fondo piatto già utilizzata dai Romani), era un’imbarcazione lunga 24 palmi (cm. 624), larga cm. 165, con lo scafo alto circa cm. 80, dalla forma snella e slanciata (alla stregua del gladio, la lamina cornea trasparente che si trova all’interno del dorso del calamaro) e il fondo tondeggiante in modo da consentire un ridotto pescaggio.

 
Tale configurazione, unitamente alla leggerezza del legname impiegato nella costruzione e all’esiguo spessore del fasciame, consentiva all’imbarcazione di raggiungere un’elevata velocità, anche per la particolarità del sistema propulsivo consistente nei quattro lunghissimi remi, ciascuno dei quali di dimensioni diverse; i più lunghi di essi, u stremu lungo mt. 5,72 e ’a paledda lungo mt. 5,46, poggiavano su due eleganti supporti arcuati (antinòpuli o anchinòpuli) sporgenti dalle murate di prua al fine di proiettare all’esterno della barca il loro fulcro e consentire ai due vogatori remate più vigorose, mentre i tre vogatori addetti ai due remi centrali, u menzu e u remu i puppalunghi mt. 4,68 (il vogatore posto in mezzo si alternava nell’aiuto ai due compagni), volgevano le spalle alla direzione di marcia del luntru, che avanzava, al contrario di quanto avvenga di solito, con la poppa.

 
Al centro del natante, tradizionalmente dipinto di nero nella parte esterna e rosso e verde all’interno dello scafo, era collocato un albero detto fareri, alto circa mt. 3,50, alla cui sommità prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi su apposite tacche rotonde (ruteddi) presenti a vari livelli, un avvistatore (u farirotu) il cui compito era quello di avvistare, seguendo le indicazioni che gli provenivano dall’avvistatore posto sulla più alta antenna della feluca (u ’ntinneri), e poi seguire il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni (va jusu, va susu, va ’riterrà, va fora, tuttu paru cammòra, firìila tunnu etc.) rivolte ai rematori la direzione da imprimere al luntru, al fine di rendere possibile il lavoro del lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sull’estremità anteriore della poppa con il compito di scagliare, una volta che il pesce fosse venuto a tiro, una delle due lance con asta di legno e punta di ferro (traffinera o ferru) che egli aveva a disposizione, opportunamente poggiate sui loro supporti verticali (maschitti). Al momento della cattura del pesce era costumanza ringraziare Sammàrcu binidittu.
La pesca del pescespada aveva luogo da aprile a giugno lungo la costa calabra e nei mesi di luglio e agosto lungo il litorale messinese. Accordi tradizionalmente codificati assegnavano ai vari equipaggi le postazioni (i posti), tratti di mare entro i quali potevano operare le grosse imbarcazioni (le cosiddette feluche, filùi) lunghe mt.11,44, larghe mt.4 e alte mt.1,50, munite di un’antenna di vedetta, costruita in legno di abete e alta 22 mt., il cui compito era quello di avvistare il pesce per poi lasciare il posto al più agile luntru che si incaricava della "caccia" vera e propria.


Da una "Monografia sulla pesca del pesce spada nel canale di Messina" redatta in occasione dell’ Esposizione Mondiale della Pesca tenutasi a Berlino nel 1880 e riedita nel 1906 a cura della Camera di Commercio di Messina e su iniziativa dello studioso Rocco Sisci, si apprende che in Sicilia, nelle stazioni (posti) con due feluche e quattro battelli (luntri) la divisione del pescato avveniva nella misura di venti parti per ogni feluca e 2 battelli, secondo le seguenti percentuali: 2 parti per l’armatore della feluca, 1 per la barca del lanciatore, 1 per il lanciatore, 1 per la vedetta (o foriere del luntro), 3 per le due vedette che si danno il cambio sulla feluca, 6 per i cinque rematori del luntru, 4 per i quattro rematori del secondo battello, 1 per il fabbro (il ferrajo che fornisce i ferri), 1 per la Chiesa.

A partire dalla seconda metà del XX secolo si assistette alla progressiva dismissione di tali tradizionali imbarcazioni; così il glorioso luntru venne dapprima trasformandosi in un’imbarcazione a quattro vogatori tutti rivolti verso il senso di marcia per poi cadere definitivamente in disuso, mentre la feluca, in origine imbarcazione d’avvistamento (il cui compito era quindi quello di stazionare, ormeggiata lungo la riva ovvero verso l’esterno, in una determinata posta) lunga dai 12 ai 18 metri, larga 4-5 e alta 1,5-2 metri, munita di albero alto circa 20 metri, venne trasformandosi nelle moderne "feluche a motore", dette anche passerelle per la lunghissima passerella (35-40 mt.) che fuoriesce dalla prua, grandi imbarcazioni a motore lunghe più di 20 metri e munite di altissimi tralicci (circa 30-35 mt.) a mò di antenne di avvistamento, o venne addirittura sostituita da sistemi di pesca basati sull’utilizzo di reti e palangresi indubbiamente molto più efficaci e redditizi ma incomparabilmente più poveri e del tutto privi della dimensione agonistica e in un certo senso di sfida paritetica che ha da sempre contrassegnato il rapporto tra uomo cacciatore e animale cacciato presso le culture tradizionali.

Non a caso per il tipo di pesca effettuata con l’arpione come quello qui esaminato gli studiosi utilizzano assai spesso la denominazione di "caccia". Da tale caratteristica deriva alla pesca al pesce spada una serie di caratteristiche di rilevante valenza antropologica, riscontrabili pressoché costantemente in tutte le comunità alieutiche del Mediterraneo: pari condizioni di partenza tra cacciatore e animale cacciato, andamento rituale delle operazioni di caccia, intimo legame (di tipo, si direbbe, totemico) con il pesce, fonte di sostentamento alimentare per la comunità e al contempo - se preda abbondante - indicatore di status, in definitiva animale mitico, mitizzato ovvero sottoposto a pratiche di conferimento di senso, a interventi di plasmazione e valorizzazione simbolica, etc.

Il luntru restaurato risale agli inizi degli anni ’40; esso proviene da un cantiere di Ganzirri, ove alla sua costruzione attese un mastro d’ascia di cui ci è pervenuto il solo nome, Giosafatto. Entrato in progressiva dismissione nel corso degli anni ’70 e rimasto a lungo in stato di abbandono sul litorale della Riviera Nord, esso venne acquistato, per meritoria iniziativa del giornalista Nuccio Cinquegrani, dal Comune di Messina alla fine di quel decennio, nella prospettiva della successiva creazione di un Museo delle tradizioni marinare locali, una sorta di Araba Fenice che ogni tanto ritorna nei discorsi e nei progetti dei politici messinesi ma che forse è destinato a dimorare solo nei sogni dei vecchi pescatori e di qualche bizzarro raccoglitore di cianfrusaglie del tempo.

Dopo essere stato sottoposto ad un sostanziale intervento di restauro ad opera del mastro d’ascia Emilio Vanto in un cantiere di Scilla (con il rifacimento di ricchieddi eantinopuli), esso venne dapprima esposto in un sottoscala dell’androne principale del Municipio e quindi, a partire dal 1981, offerto per tre anni alla pubblica fruizione presso la Fiera Campionaria di Messina.

Fu quindi collocato, incongruamente, nell’area dell’ex Gasometro, ove andò incontro a un progressivo quanto umiliante degrado; rimosso in seguito da tale sede, il luntru venne dapprima custodito in un fatiscente deposito comunale a Gazzi e poi, a seguito di una campagna di stampa e di un’indagine giudiziaria, affidato alla Sezione messinese della Lega Navale. Collocato successivamente per qualche tempo all’interno dell’Istituto Nautico "Caio Duilio" su iniziativa del Preside Cardia, esso venne definitivamente, nella seconda metà degli anni ’80, dato in deposito alla Lega Navale, che ne curò il varo nel mese di giugno 1988, dopo un ulteriore intervento (di rifacimento più che restaurativo, in quanto comportante la sostituzione dell’originarioprimu con una pesante chiglia).

Il luntru venne poi offerto alla fruizione di visitatori e scolaresche e sporadicamente utilizzato a fini spettacolari o promozionali; nel 1989 venne infatti "calato" nel lago di Ganzirri per una ricostruzione spettacolare della tradizionale caccia al pesce spada promossa dall’Associazione "Ittios Messana" e patrocinata dall’Amministrazione Provinciale. In quell’occasione vennero invitati alcuni anziani pescatori messinesi, nel frattempo emigrati.

Dopo tale ultima performance pubblica, il glorioso luntru venne custodito per molti anni nei depositi della Lega Navale, rimasti per lungo tempo chiusi. Solo alcuni anni or sono la loro riapertura rivelò l’esistenza del prezioso cimelio.

Per tutto quanto sopra esposto nel 2002 il natante è stato riconosciuto come bene rivestente un particolare interesse etno-antropologico, costituendo esso l’ultima testimonianza materica di attività lavorative tradizionali, quali la cantieristica navale dei mastri d’ascia e la pratica piscatoria, che per molti secoli hanno fatto parte integrante dell’economia e della cultura del comprensorio messinese.

In forza di tale interesse il luntru è stato sottoposto a tutela ai sensi della normativa vigente (Testo Unico sui Beni Culturali, ora Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio). L’intervento restaurativo condotto, oltre ad aver sortito la restituzione dell’imbarcazione alla sua originaria integrità formale attraverso l’eliminazione di tutte le superfetazioni che nei decenni di dismissione ne avevano pesantemente opacizzato l’identità (una per tutte, l’inopportuna e dannosa vetroresina), ha registrato l’insorgere di un circuito virtuoso che ha visto collaborare a vario titolo, ciascuno secondo le proprie finalità e competenze istituzionali, ben cinque organismi quali il Comune di Messina, la Lega Navale, il Lions Club Peloro, il Parco Letterario Horcynus Orca e la Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Messina, oltre a determinare per la prima volta l’attività congiunta, "fianco a fianco", di due valenti mastri d’ascia, Mastro Giacomo Costa e Mastro Mimmo Staiti, rispettivamente rappresentanti la vecchia e la nuova guardia della cantieristica tradizionale messinese.

Anche questo, ci pare, va ascritto a merito dell’iniziativa che qui si presenta: di avere cioè sortito come esito, cosa affatto rara e forse unica per la Messina di oggi, una comunanza di linguaggi e di sentimenti intorno a un fine comune percepito non come interesse di gruppo o di clan (il particulare di cui parlava Guicciardini) che usa tanto perseguire in questa città, sibbene un progetto speso per rinsaldare una memoria che sempre più risulta l’unico strumento atto a garantire alla città stessa navigazioni prive di rischi nei mari tormentati della modernità.

Se l’iniziativa, come crediamo, è pienamente riuscita, piuttosto che applausi di maniera essa richiede forse volontà di menti e di cuori per altre "piccole" analoghe iniziative in grado di consegnare nuova qualità di vita a una comunità ormai priva di utopia.

Il piacere di riscoprire il Luntro

E' sempre un piacere, un privilegio e un onore, per un Associazione come la nostra, il poter essere utili a distanza a nostri conterranei pieni di nostalgia che riscoprono nelle pagine del nostro sito le immagini e i ricordi della propria terra natale, purtroppo abbandonata.
Allo stesso modo, siamo lieti di poter giovare alla divulgazione e alla ricerca delle tradizioni e della storia di questo tratto di mare e di terra. Per questo motivo possiamo riportare due comunicazioni che ci sono arrivate, tutte e due relative al "Luntro":

"Sapere che ne esiste ancora uno, anche se ampiamente rimaneggiato, e vederne le foto sul vostro blog mi ha commosso sino alle lacrime. Per un ganzirroto come me che vi manca dal lontano 1961 è stato come tuffarmi dalla cima della "fuluca" o quasi, come eravamo usi fare da ragazzini, sotto gli improperi dei pescatori, consci del pericolo che correvamo. Un'emozione "violenta" e insieme una sensazione di dolce e prepotente malinconia, un senso di oppressione al petto quasi di angoscia percorsa dai flashback della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia adolescenza.
GRAZIE e un grazie al caso che mi ha condotto sul vostro blog".

"Salve,
Ho trovato il sito dell'Associazione Culturale Cariddi mentre cercavo informazioni sulle caratteristiche dell'imbarcazione chiamata Luntro ove ho trovato un ottimo articolo, credo di sua penna, sia informativo che ben illustrato.
Io sto facendo delle ricerche su questo tipo di imbarcazione descritta da Omero nell'Odissea. Vorrei, quindi, farle una domanda: Lei, si e` occupato di quest'aspetto nei suoi studi e ricerche? Se dovesse avere informazioni a questo riguardo sarei molto interessato di conoscerle.
La ringrazio e la saluto cordialmente,
LETTERA FIRMATA"

Rispondiamo ad entrambi: l'articolo citato è tratto da una rivista divulgativa di Messina: "Città e Territorio" del 2005. La direzione e la redazione della rivista hanno sede all'ufficio stampa del Comune di Messina. E-mail: cit_ter@solnet.it. Non sappiamo tuttavia quanto possa essere attendibile e sicuro questo indirizzo, che riportiamo semplicemente dal sito ufficiale.

Il Luntro nella foto è quello che si trova oggi al Parco Horcynus Orca di Torre Faro, visitabile da tutti a memoria del tempo passato. Per i nostri conterranei che sono emigrati ma contano di poter tornare per una qualche vacanza a Capo Peloro, si consiglia una visita completa al Parco e una delle gite organizzate di una intera giornata a bordo delle attuali feluche. Questa attività di "Pesca Turismo", attira ogni estate decine di escursionisti e appassionati che possono passare in barca diverse ore, mentre i pescatori lavorano davvero sulle acque dello Stretto.

Per avere maggiori informazioni sul Luntro e la Pesca al Pesce Spada a Capo Peloro molti sono gli esperti che gravitano attorno alla nostra Associazione e hanno "temprato" dal vivo le proprie conoscenze per tutta la vita.
Gli splendidi schemi disegnati e la ricostruzione di tutte le componenti di Luntro e Palamitara sono di Peppino Rando. Un altro "esperto" di cose locali è Giuseppe Buceti, autore anche di alcuni studi su Torre Faro e sulla numismatica messinese. Mauro Longo, lo scrivente, ha curato tra le altre cose un approfondimento sulla salagione del pescato nell'antichità.

Per chi avesse infine voglia di una lunga conversazione su Torre Faro, la pesca e le tradizioni del paese, il consiglio è di venire un pomeriggio alla sede della nostra Associazione, in Via Lanterna 4 a Torre Faro, Messina (090-3223093) e chiedere di Franco Longo.

'A Palamitara

Ancora grazie a Peppino Rando possiamo pubblicare per gli appassionati una dettagliata e precisa ricostruzione della Palamitara.
Basta clickare sulle immagini per ingrandirle.

1 - Timuni
2 - Ntinna pa vila
3 - Ugghiozza
4 - Fimminedda
5 - Iaci
6 - Rota i puppa
7 - Bucu passascotta
9 - Scammu e voca du rimu paledda
8 - Nnottula
10 - Suprasola
11 - Materia
12 - Nfura
13 - Fuccedda
14 - Puppa
15 - Siritta
16 - Bancu
17 - Vocarimu puppa
18 - Voca nto 5
19 - Anchia
20 - Voca nto 4
21 - Ianciu pu capiteddu
22 - Voca nto 3
23 - Curituri
24 - Voca nto 2
25 - Voca brazzolu
26 - Muccigghia
27 - Scazza illaburu da vila
28 - Bancu du contrabrazzolu
29 - Mussu da vila
30 - Voca du contrabbrazzolu
31 - Ianciu i prua
32 - Migghiareddu
33 - Palamedda
34 - Feru
35 - Caccagnolu
36 - Puntali
37 - Taulatu
38 - Catinozzu



"Il Luntro". Tipica imbarcazione da pesca,utilizzata fino alla fine degli anni 50 solo dai pescatori Ganzirroti e Calabresi insieme alla "Feluga"per la cattura del pescespada con l'arpione



Il luntro ed io
giovedì 2 agosto 2007 di Francesco Pagano
Ci sono molti studiosi di scienze e di antropologia, ci sono tanti appassionati delle nostre antiche e nobili tradizioni marinare in grado di disquisire sul luntro con competenza, ma non credo che qualcuno quanto me abbia convissuto con il luntro operando con la cinepresa e la macchina fotografica, così da riportarne ricordi molto singolari.
Da studente liceale avevo praticato il canottaggio; credevo, quindi, che la scalmiera posizionata all’esterno della murata fosse una peculiarità assoluta delle imbarcazioni di competizione sportiva: una invenzione moderna.
Il mio grande stupore, al primo contatto con la pesca del pescespada, a Ganzirri, nel 1948, fu di scoprire che ben prima - chi sa quanti secoli prima - qualcuno aveva inventato questo straordinario accorgimento per dare velocità ad una imbarcazione di lavoro: il luntro. Restai per un bel po’ a bocca aperta ragionando sulla ingegnosità dell’uomo e sulla raffinatezza di quel particolare "tecnologico" che, come ebbi poi ad accertare "sul campo" (cioè nei momenti del furore dell’inseguimento), non solo rendeva il luntro la barca da pesca più veloce che avessi mai conosciuta, ma, con il meccanismo di leve sapientemente creato con il fuori scalmo, la rendeva agilissima nel pedinare i guizzi repentini dello spada e stabilissima al momento del silenzio solenne, quando il "lanzaturi", giunto a tiro, innalzava lentissimamente la punta della fiocina con cui imponeva silenzio ed immobilità assoluti.
Era un gesto da grande sacerdote del mare che faceva immergere di taglio i remi ai quattro accaldatissimi rematori con cui rigidamente riuscivano a frenare velocità, arrestare totalmente il luntro e lo facevano resistere alla irruenza della corrente. Tutto si impietriva come un gruppo da presepe del Bongiovanni: solo lo sciacquettio del mare sulla chiglia viveva ancora.
Questa fu la prima rivelazione di quel gioiello di marineria chiamato luntro: e fu un amore a prima vista che, insieme al più riverente rispetto, non si è mai estinto.
Poi venne la scoperta dell’uso di navigare: con la poppa davanti. Mi spiegarono che, essendo lì più largo lo spazio rispetto alla prua, ciò consentiva al "lanzaturi", che doveva lanciare l’arma letale stando in
piedi sulla piccola piattaforma, maggiore stabilità e, quindi, maggiore precisione del lancio.
Chiesi, allora: perché non chiamarla prua? Un sorriso di delicato compatimento fu la risposta: ad oggi non ho ancora capito. E ancora: il falere. A prima vista mi sembrò ridicolo e inutile quel corto e strambo palo con un dischetto poggiapiedi a mezzo metro dalla punta e leggermente inclinato in avanti. Cosa può vedere un uomo appollaiato a così minima altezza? mi domandavo.
Quando, poi, mi ritrovai lassù - due metri più degli altri - squassato dalle oscillazioni dei furiosi e ritmici colpi di remi, dalle improvvise ed impreviste virate e riprese, dalle impetuose frenate, quando - non avevo altro che due braccia e due mani - non riuscivo contemporaneamente ad agguantarmi alla punta del falere e ad imbracciare la cinepresa, come fossi in un rodeo marino; quando, però, riuscivo a lanciare uno sguardo oltre al prua (pardon: la poppa) di traverso alla superficie del mare scorgendo un luccichio argenteo stretto e lungo ad uno, due metri più in basso, solo a quel momento capii che anche il tozzo falere aveva una sua funzione: eccome!
L’ultima scoperta fu il pagliolo, cioè il pavimento del luntro, ed i piedi - nudi naturalmente - dei quattro rematori. E quella è rimasta segreta fra me ed il luntro di Padron Simone Arena. Disteso, coricato, inginocchiato, seduto alla nostrana o alla turca, contorto come una anguilla, fra quei piedi che pestavano fragorosamente sul legno - e talvolta sul mio corpo -, per ore e giorni con la mia fedelissima Arriflex 35 mm, ne feci il mio set per riprendere i dettagli di quella grandiosa sfida fra l’uomo ed il sinuoso spada. Le mani abbarbicate rabbiosamente al remo, le smorfie e gli urli contratti del viso, i muscoli del torso nudo che si tendevano e contraevano, le spalle inarcate nello spasimo dello sforzo rematorio di quei giovani che si erano votati a quell’arte, furono per me l’essenza vera di quel mondo in cui si confondevano uomini e mare: insieme alle ieratiche movenze di Padron Simone, il più famoso "lanzaturi" dello Stretto, quando, prima dell’attimo finale, individuata la posizione favorevole della preda alzata l’asta ed ottenuto il silenzio e l’arresto, orientava l’arpione a quattro alette ora a destra, lentamente, ora appena a sinistra, quale ordine di rotta per i rematori che con silenti e leggere remigate, come una pantera che ha adocchiato la gazzella, raggiungevano la postazione ideale per lanciare l’arma.
E da lì, con una parabola di una decina di metri che sembrava non finire mai, l’arpione dalle quattro solide alette quasi sempre infilzava lo spada.
Il tocco di carne attorno a questo foro spettava al "lanzaturi".

(La Pesca del pescespada nello Stretto di Messina fino agli anni Sessanta del ‘Novecento. Dal romanzo “Messina 1908″, di Giuseppe Loteta, Pungitopo editore).

La feluca

La flottiglia degli Arena,. così si chiamava la famiglia di Angela, era una delle più grandi e attrezzate dell’intera riviera messinese. E parlare di flottiglia non era impropio, perchè si trattava di due grandi feluche e di due luntri. Le prime issavano al centro il maestoso albero di avvistamento, ‘a ntinna, alta più di venti metri, in cima alla quale si accovacciava la vedetta che aveva il compito di avvistare dall’alto il pescespada e di segnalarlo con grandi urla all’equipaggio del luntro, piccolo e veloce, che avrebbe seguito la preda fino a colpirla. Una prendeva posizione vicino alla costa e l’altra al largo, in modo da individuare il pesce in un tratto di mare molto ampio.  Le due feluche servivano anche da contenitori degli animali arpionati che i pescatori issavano a bordo e stivavano negli ampi spazi ricavati sottocoperta. L’equipaggio di ogni luntro era composto da sei persone. Quattro erano addetti ai lunghi remi che imprimevano alla barca la velocità necessaria all’impresa. Un quinto, il foriere, issato su un piccolo albero di direzione, seguiva le indicazioni dell’antenniere della feluca e le trasmetteva, aggiustandole a distanza ravvicinata, ai rematori. E infine il lanciatore, che aveva il compito più difficile di tutto l’equipaggio: colpire il pescespada con il lungo arpione, il ferro, lanciato con tiro diretto o parabolico da una distanza che poteva raggiungere dieci o dodici metri. Il lancio avveniva in piedi, in equilibrio precario, ma raramente il bersaglio era mancato. Il luntro era dipinto all’esterno di nero, per risultare meno visibile al pesce. e all’interno di verde. Il padre di Angela, don Vincenzo, guidava l’intera battuta dalla tolda della feluca d’alto mare. Totino, addestrato fin da bambino, ne era l’antenniere. E gli altri due fratelli, Paolo e Pippo, erano i lanciatori dei due luntri…

Il luntro

Gli uomini degli equipaggi raggiunsero rapidamente i loro posti e le imbarcazioni presero il largo contemporaneamente. Non era passato molto tempo che la prima feluca calò l’ancora e uno dei due luntri cominciò a girarle intorno lentamente. La barca di don Vincenzo proseguì verso il mare aperto. E Antonio dimenticò i suoi pensieri. La feluca solcava le onde con leggerezza, danzando su un’acqua limpida e trasparente, quale era raro vedere nei giorni a cavallo tra la primavera e l’estate. Ora, la sensazione di benessere dello studente era totale….Contava solo che lui si trovasse lì. su quel mare di favola, ad assistere a un rito che si tramandava da millenni nello Stretto di Messina.

Il silenzio fu rotto all’improvviso da un grido di Totino dall’alto. “Le fere, le fere! Pi fora!”. Antonio guardò per fuori, verso il largo, e vide la carovana di delfini che fendeva il mare a grandi balzi. Per nulla intimoriti dalla presenza dell’uomo, anzi curiosi, i mammiferi virarono ad angolo retto e si diressero verso il peschereccio: Lo circondarono e, regolando la loro velocità su quella del natante, lo scortarono per un tratto di mare, emettendo ad intervalli regolari fischi e suoni striduli. Poi all’improvviso come erano venuti, ricostituirono l’originaria formazione e si allontanarono. I pescatori li guardavano senza muovere un dito. Avevano rispetto per le fere e anche un certo timore, che derivava dagli incomprensibili atteggiamenti di questi animali e dai racconti dei più anziani che, nelle sere d’inverno, intorno al fuoco, giuravano perfino di averli sentiti piangere.

Guttuso: La leggenda di Colapesce

La caccia vera e propria ebbe inizio a giorno inoltrato. Totino cominciò a urlare come un pazzo: “Sunnu dui, dui! Fora e susu! Fora e susu! Mi si movi, mi si movi u luntru”. Ma non ebbe bisogno di ripetere l’avvertimento. I quattro rematori del luntro scattarono e il barchino partì velocemente nella direzione indicata dall’antenniere. Finchè anche il foriere fu un grado di vederli. Nuotavano appaiati e ancora ignari del pericolo. Nel più assoluto silenzio, Paolo Arena, il lanciatore, salì a poppa e imbracciò il ferro, la lunga asta di legno alla cui estremità era fissato l’arpione vero e proprio, la punta metallica con le alette apribili, che, una volta centrato il bersaglio, si staccava dalla sua base e restava immersa nel corpo della vittima. Lo bilanciò e rimase in attesa, immobile, con gli occhi fissi sul tratto di mare che aveva davanti. Finchè il foriere gli sussurrò dall’alto: “ora, ora”, e lui lo vide. Era un bestione lungo sui tre metri a otto, dieci metri di distanza. Sembrava in apprensione, ora. Si muoveva a scatti e si era girato con la testa nella direzione opposta a quella dove si trovava il luntro. Aveva fiutato il nemico e si preparava a fuggire, ma Paolo non gliene diede il tempo. Lo guardò per un istante e poi, con un grido di trionfo, lanciò alto il ferro che, con una perfetta parabola, andò a conficcarsi nel corpo dell’animale. “Caloma, caloma” gridò don Vincenzo da bordo della feluca, a indicare che ora si doveva dare caloma, cioè distendere la lunghissima sagola collegata con la punta metallica e seguira i movimenti del pesce, finchè questo, sfinito e dissanguato, non si fosse immobilizzato e non fosse possibile issarlo a bordo.

Il pescespada tenta di fuggire.

Quello fu il primo, una femmina. Seguì il maschio che continuò a girare intorno al punto in cui era stata colpita la sua compagna, finchè il ferro di Paolo non trafisse anche il suo corpo. E, dopo la coppia, altri, arpionati con precisione nell’eccitazione crescente di una caccia che si rivelava anche più copiosa del previsto. Un solo errore: uno scarto improvviso del pesce e il ferro in acqua, tra gli insulti e le grida di scherno degli equipaggi delle due barche.

La pesca s’interruppe a mezzogiorno. Era l’ora della colazione. Frugale, come sempre nelle battute al pescespada. Pane e formaggio, pane e pomodori e rigorosamente acqua, conservata nel bummolo di terracotta che la rinfrescava. Il vino, rosso e abbondante, si sarebbe bevuto la sera, a terra, quando la pesca della giornata sarebbe stata ormai un ricordo da illustrare con dovizia di particolari ai commensali…

Il ritorno a terra.

Quando arrivarono a terra il sole non era ancora tramontato. Le ultime luci furono utilizzate per sbarcare le prede dalle feluche e, sulla spiaggia, cominciare a far le parti per l’equipaggio. I pezzi più gustosi e meno commerciabili, perchè solo gli intenditori più esigenti li richiedevano, erano riservati ai pescatori: la scuzzetta, tratta dalla nuca del pesce, ottima se cucinata alla ghiotta, la surra, ricavata dall’addome, e, soprattutto, le piccole parti commestibili della testa, tagliata prima di vendere l’animale, i deliziosi pititti che arricchivano sughi e intingoli. Antonio assistette alla divisione e, al punto in cui erano arrivati, gli sembrò naturale che don Vincenzo gli mettesse sottobraccio un gran fagotto di roba. “Questi sono per lei”, disse. “E’ stato tutta la giornata con noi sulla barca ed è giusto che guadagni qualcosa. Vada a posarli e poi, se vuole onorarci, venga stasera a casa nostra per la mangiata”.


La pesca del Pesce Spada





La pesca del Pesce Spada, a Messina, è un’arte antichissima che si tramanda di padre in figlio. Si pratica nelle acque dello Stretto, dai primi di maggio e fino a tutto agosto, da oltre duemila anni con l’uso, ad inizio stagione, del sorteggio delle “poste” che cambiano a rotazione ogni settimana.

Per la caccia al Pesce Spada “u lanzaturi“ ( il lanciatore) è determinante per la cattura della preda, ma, ciò, è sempre subordinato alla qualità  “du ferru“ (del ferro, o meglio, dell’asta con l’arpione ).

L’arpione era forgiato secondo canoni tramandati di padre in figlio e pochissimi erano gli esperti “mastri firrara“: uno di questi era “Mastru Ninu Puglisi”, del Villaggio S. Agata, dove visse ed aveva bottega.

Quando forgiava e batteva gli arpioni stava sempre solo, a conferma del segreto che si è portato, recentemente, nella tomba.

I capi barca facevano a gara per avere un suo arpione, che non vendeva ma che dava solo in uso,  ricevendo in cambio una parte del pesce spada catturato. A fine campagna di pesca, i ferri venivano riconsegnati al fabbro che curava la loro manutenzione  sostituendo quelle parti usurate.

La morte di “Mastru Ninu” ha lasciato un vuoto incolmabile tra i pescatori che, specialmente i più giovani, lo interpellavano per avere consigli sulla pesca, sulle correnti e sull’uso degli attrezzi.

Oggi gli arpioni sono comprati nei negozi specializzati.    






Anticamente e fino agli anni Cinquanta, la pesca del Pesce Spada si effettuava con due barche: una “Feluca”  con un albero centrale alto 20 metri chiamato”‘ntinna“, dove sulla  sommità trovava posto un osservatore detto “ ‘ntinneri “, ed una barca lunga sei metri e larga m. 1,65 chiamata “Luntro“, munita di una piccola antenna alta tre metri, con un equipaggio di cinque  rematori su quattro remi, un  “antennista” e un lanciatore che si posizionava a poppa (così era chiamata, in gergo, la prua ) col compito di infilzare la preda.







La barca, costruita in legno molto leggero, sotto la spinta dei vogatori diventava velocissima ma capitava, come anche oggi, che il pesce si inabissasse o si sbagliasse il tiro.

L’equipaggio del “Luntro” era scelto accuratamente tra vogatori capaci, che nella maggior parte dei casi erano addestrati sin dalla nascita.

Il pagamento dell’equipaggio non era determinato in quota fissa, ma, per antica usanza, era calcolato in proporzione al pescato, in modo da avere stimoli maggiori.

Il sistema, basato su una Feluca e due Luntri, era articolato in venti parti cosi suddivise:

due parti al padrone della Feluca; una alla barca del lanciatore; una e mezza al lanciatore; una alla vedetta del Luntro; tre alle due vedette della Feluca; sei per i cinque rematori del Luntro; quattro per i quattro rematori della seconda  barca; una al proprietario dei ferri e mezza alla Chiesa.

Oggi il sistema di pagamento è quasi uguale, ma adeguato al nuovo sistema di pesca che si pratica con feluche munite di passerelle lunghe 20 metri, un traliccio di 30 metri in sostituzione del palo di legno e potentissimi motori, mentre il “Luntro” è stato definitivamente abbandonato.

Nel periodo estivo sono collocate nel Lago Grande, dai pescatori di Ganzirri, una “Feluca” ed un “Luntro” a testimonianza del nostro glorioso passato marinaro; barche che poi sono utilizzate per trasportare la statua di San Nicola, il giorno della sua festa, all’interno del Lago Grande, attorniato da lumi posti nelle acque e da tutte le barche dei pescatori del luogo.  



La pesca del pesce spada nello Stretto di Messina tra mito, storia e mestiere


 




da maggio a ottobre nello Stretto di Messina (Messina) -

(di Giusy Chiricosta)
Il periodo di pesca del pesce spada va da maggio a ottobre, quando le acque di superficie si riscaldano e i pesci spada si riavvicinano alla costa. E’ infatti in questo periodo che lo troviamo più facilmente fresco nei mercati. E’ assai difficile stabilire esattamente come e quando i pescatori dello Stretto iniziarono a dargli la caccia: di certo è un’arte antichissima. E’ infatti da tempo immemore che lo Stretto di Messina è la via prediletta dal pesce spada perapprodare nelle acque più tiepide del Mar Ionio.




La pesca del pesce spada può essere praticata in diversi modi:
con la fiocina o arpione (su apposite imbarcazioni dette "feluche");
con i palangari derivanti;
con reti a circuizione.
Abbocca abbastanza facilmente anche a lenze trainate, per questo è preda ambita anche dai pescatori sportivi.

Col metodo della fiocina (o arpione) la cattura del pesce spada avviene scagliandogli contro una lunga lancia alla cui estremità si trova un uncino ricurvo che, una volta penetrato nelle carni non ne esce più. E’ sicuramente un modo molto pittoresco e molto legato alle tradizioni locali.

Un tempo per pescarlo, ci si serviva dei luntri, imbarcazioni snelle e veloci a quattro remi dipinta di nero, tanto da sembrare simile ad un pesce. Venivano costruire dai migliori artigiani di Ganzirri e Torre Faro, in legno di gelso o di leccio. Il suo nome pare derivi da Linter, barca a fondo piatto utilizzata dai Romani per la pesca e il trasporto costiero. Al centro c'era un albero alto 3 metri e mezzo (Farere) dove, su apposite sporgenze, si metteva unavvistatore. Sul luntro agivano di solito cinque o sei uomini, tra cui unfiocinatore.


Era lui che, una volta avvistata la preda, aveva il compito di fiocinarla. A quel tempo era una battaglia dura che non sempre però, vedeva vincere l’uomo. I luntri, pur se costruiti solidamente, erano pur sempre dei gusci fragili e vulnerabili di fronte alla forza disperata di un animale che lotta per la propria sopravvivenza. Nel corso degli anni l’uomo ha ovviamente studiato e sviluppato strumenti migliori e più sicuri per la pesca del pesce spada.

Oggi, invece, i luntri sono stati sostituiti da eleganti e velocissime feluchedotate di un’ alta antenna d’avvistamento e di una lunga passerella per il fiocinatore. Le feluche sono barche a motore di alto mare più pesanti del luntro e meglio attrezzate. L’antenna che si innalza al centro della barca, è alta da 20 a 25 metri e in cima reca una coffa dentro alla quale prende postoun antenniere sempre in attenta osservazione del mare e pronto a dare l’allarme al primo avvistamento del pesce spada.


Dalla prua della feluca fuoriesce un trampolino lungo 30-40 metri alla cui estremità si posizionerà il fiocinatore, pronto a seguire le evoluzioni del pesce e, al momento buono, a lanciargli addosso l’asta uncinata munita di una sottile cordicella di nylon che può essere lunga anche diverse centinaia di metri (la caloma).

Quando la fiocina, scagliata con violenza al grido di "Viva Santa Marta biniditta!" penetra nelle carni del pesce spada (la cosiddetta strumatura), questi talvolta, quasi per istinto, cerca di rivoltarsi contro il feritore. Ma la maggior parte delle volte subito dopo un istante di sbalordimento e di immobilismo, si inabissa cercando la fuga.

Il fiocinatore ha cura di mollare la funicella che lega la fiocina affinché il pesce nel vano e dispendioso tentativo di fuga, possa esaurire la sua forza e la sua vitalità. Ad intervalli il pesce affiora dal’acqua per poi inabissarsi nuovamente lasciando una scia di sangue dietro di sé.

Una particolarità: se il pesce è femmina nelle sue vicinanze, (ma pare anche in altri casi) appare il maschio che sembra voler portare aiuto alla sua compagna; ma non sa che fare. Allora si agita e si dimena e diventa pericolosissimo. Ma su dì esso accorrono subito le altre feluche con altri fiocinatori e anche per lui la sorte è segnata; alla fine, quando le forze del pesce spada sono stremate, l’epilogo è compiuto.

I pescatori lo issano su una barca da carico con molta cautela; infatti è noto che a volte, nell’agonia, il pesce potrebbe avere ancora un improvviso ritorno di aggressività.

Un altro modo utilizzato per la pesca del pesce spada è quello con i"palangari derivanti".
Il palangaro può essere paragonato ad un lunghissimo bolentino armato con molti ami. Infatti è composto da un lungo cavo principale , “trave” o “lenza madre”, (può essere lungo anche diversi chilometri), che può essere realizzato con cordino ritorto o trecciato, oppure con monofilo o anche con una piccola fune in acciaio.

Alla lenza madre vengono legati gli ami tramite spezzoni di lenze, i cosiddetti "braccioli" che vengono legati al trave ad intervalli regolari, pari a circa 2 volte la loro lunghezza. I palangari si distinguono in fissi e derivanti a seconda se sono ancorati sul fondo o lasciati in balìa delle correnti. I derivanti, quelli usati per la pesca del pesce spada, sono di superficie. Di norma la pesca delpalangaro viene effettuata di notte: si cala verso il tramonto e si salpa all’alba. Durante il giorno si allestiscono le ceste e si innescano gli ami.

Terza modalità per effettuare la pesca del pesce spada è con le reti. La pesca con la rete (palamitara), viene effettuata di notte. Questa rete è esclusiva per tonno e pesce spada. E’ molto robusta, lunga 600 - 800 metri,alta 16 metri, con maglie di circa 17 cm di lato.

In superficie è sostenuta da un cavo con galleggianti e zavorrata con piombi; i due estremi del cavo sono collegati ognuno ad un grosso galleggiante, ciascuno dei quali regge una campana. Quando il pesce spadaincappa nelle rete e ne rimane ammagliato per cercare di liberarsi si dimena,facendo suonare la campana, avvisando così i pescatori.

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